Aggiornato il 15 mag 2023
“There is a crack in everything,
That’s how the light gets in”
(Leonard Cohen)
La parola giapponese kintsugi si pronuncia “chinzughì” e indica l’arte di riparare (“tsugi”) oggetti di ceramica unendo i frammenti con lacca cosparsa di polvere d’oro (“kin”). L’oro è il metallo più prezioso, che non passa inosservato, ma al contrario dona valore.
Nella tradizione occidentale, rompere una ciotola in ceramica o qualsiasi altra cosa è visto esclusivamente come qualcosa di negativo. Rompere le uova nel paniere, rompere una relazione, persino rompere le scatole.
“Chi l’ha rotto?”, una colpa.
“Io no”, una vergogna.
“Va bè, non parliamone più”, qualcosa da dimenticare, passando oltre girando la testa dall’altra parte.
Tanto tempo fa, un ricco signore giapponese invitò a cena alla sua corte il più famoso maestro del tè di tutti i tempi, dal nome abbastanza impronunciabile, ma che noi per comodità chiameremo signor Sen. Il ricco signore aveva la precisa intenzione di ostentare il suo nuovo vaso cinese dall’inestimabile valore. Tuttavia durante la cena di tutto si parlò fuorché del vaso, che rimase completamente ignorato nel suo angolo per tutta la sera. Quando il signor Sen se ne andò, il ricco signore, al colmo dell’irritazione, afferrò il vaso e lo scagliò a terra con estrema violenza, tanto che i suoi frammenti andarono a finire ovunque, rimbalzando contro le pareti e spargendosi su tutto il pavimento della grande sala.
Furono i suoi feudatari, forse per rispetto, forse ancor più perché piangeva loro il cuore nel vedere un oggetto di immenso valore distrutto per sempre, a raccoglierne ogni singolo frammento e a portarlo al restauratore più bravo di tutto il Paese.
“Lo faccia più bello possibile”, fu la loro richiesta accorata. Fu così che il restauratore non si preoccupò affatto di nascondere le crepe né di restituirlo al suo stato originale, ma anzi mise in evidenza quelle che erano diventate ora le sue caratteristiche distintive, parte della sua storia: le crepe.
Quando il signor Sen ritornò a cena a casa del ricco signore, notò subito quel vaso unico, percorso da una fitta ragnatela di profili in oro, così prezioso come non ne aveva mai visti prima. E non finiva più di lodarne la bellezza.
Qualche mese fa, ho frequentato il corso di kintsugi del maestro Elio Cristiani, esperto tra l’altro anche di ceramica raku. Tralasciando il mio risultato che potrei definire con un eufemismo non esattamente all’altezza di presenziare a un cerimonia del tè con il signor Sen, ho potuto sperimentare con mano una tecnica che mi affascina da tanto tempo e che mette al centro uno dei concetti chiave da cui è nato Innesti: la ferita che si ripara, la cicatrice testimone di una storia, il dolore da accogliere per poter ripartire migliori, l’aridità da cui nasce la vita, la crepa da cui entra la luce.
“Esiste in Giappone un’arte che fa dell’errore un’opportunità, della fine un inizio. Dell’irreparabile, bellezza” (Laura Imai Messina, Wa, la via giapponese all’armonia). Quante volte abbiamo compromesso il nostro benessere mentale o semplicemente l’andamento positivo che avrebbe potuto avere una giornata per concentrarci su ciò che irreparabilmente non era andato bene? Nella filosofia taoista e zen, la perfezione è un concetto molto diverso da quello della nostra concezione occidentale. Perfectum in latino significa finito, concluso, è un concetto completamente statico. D’altra parte in Giappone c’è il kintsugi, c’è il wabi-san, l’imperfezione che valorizza, il tutto visto in un’ottica sempre molto dinamica, il "perfettibile".
Spesso il nostro stare male, il nostro “roderci il fegato” (che non è nemmeno tanto una metafora) è legato al non raggiungere mai la perfezione che vorremmo. Nella medicina tradizionale cinese, il rimuginio fa male alla milza e allo stomaco, mentre le arrabbiature si ripercuotono su fegato e cistifellea. Ognuno di noi, voltandosi a dare uno sguardo veloce alla sua vita, non può non vedere come il raggiungimento di un buon risultato o di un traguardo sperato sia il risultato di mille sbagli che sono parte del percorso stesso. Cadere è parte integrante del viaggio, non si scappa. Prendere la decisione sbagliata è necessario per riconoscere la via che non si vuole seguire. La perfezione è un concetto che si costruisce, ci si arriva camminando attraverso buie caverne e paludi malsane, a volte lo si supera addirittura senza accorgersene, si torna indietro e poi lo si vede ancora comparire all’orizzonte.
Dopo un corso di kintsugi, è più evidente quante volte accettiamo di sacrificare il nostro benessere in virtù di un’idea perfetta di come dovrebbero andare le cose, che in realtà è così statica da essere irrealizzabile. E ci perdiamo invece il bello di rimettere insieme i pezzi, di ricoprire d’oro le ferite e di gustarci la sorpresa del pezzo unico che ne esce, addirittura più bello e prezioso di quello che era prima.
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